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Talk Talk – I camaleonti del rock

 

LO SPELEOLOGO

 

 

di NICOLAS ICARDI

 

 

I Talk Talk sono uno dei misteri del rock. Quando anni fa i No Doubt di Gwen Stefani hanno reinterpretato la canzone “It’s my life” qualcuno si sarà ricordato di loro. Gli stessi si saranno poi probabilmente chiesti che fine abbia fatto quella band inglese che nella seconda metà degli anni ’80 era riuscita a conquistare sopratutto il pubblico italiano grazie al singolo “Such a shame”. Ebbene, la formazione di Mark Hollis, la guida della band, cantante, autore e fondatore ha pubblicato l’ultimo album nel 1991 e poco dopo è arrivata la separazione ufficiale, che ha sancito la fine di una esperienza musicale durata poco più di un decennio. Ancora oggi alcuni appassionati si chiedono perchè questo gruppo non abbia conosciuto un successo più duraturo e come mai la band venga ricordata esclusivamente per un paio di episodi synth-pop mentre si ignora l’importanza artistica del loro migliore repertorio. Il gruppo si forma a Londra nel 1981 dalle ceneri dei Reaction, duo punk composto da Mark Hollis e dal fratello Ed, grazie all’unione dei due insieme a Paul Webb al basso e Lee Harris alla batteria. Il fratello di Hollis lascia la band poco dopo, lasciando il suo posto al tastierista Simon Brenner. Nati sulla scia dell’ondata synth-pop dei primi ’80 ottengono un contratto con la Emi e sotto la direzione artistica di Colin Thurston, produttore dei Duran Duran, pubblicano alcuni singoli, ma prima dell’album di debutto il sodalizio è già terminato. Danno alle stampe quindi “The party is over” nel 1982, l’album cavalca le sonorità new wave del periodo, nonostante l’efficacia dei singoli (Today, Talk Talk), il disco è complessivamente mediocre e i Talk Talk si confondono nel gruppone di band che guardano ai suoni sintetici alla moda. Sarà determinante l’incontro con Tim Friese-Greene, che, pur non rientrando nella line-up ufficiale, si mette in cabina di regia: produttore, tastierista e compositore insieme a Hollis della quasi totalità dei brani. Gli effetti di questo inserimento maturano nel secondo album, “It’s My Life”, pubblicato nel 1984; questo è l’LP che li fa conoscere al grande pubblico. Sebbene lo scarto dal precedente lavoro sia già notevole, le scelte timbriche percorrono ancora una volta il solco di un sinth-pop “rassicurante”. Il primo singolo “It’s my life” diviene presto un hit di quella stagione, una canzone semplice ma piena di dettagli tutt’altro che banali, malinconica e seducente. Il singolo successivo, “Such A Shame”, pur rimanendo sempre in ambito pop, è un brano musicalmente più complesso e pregevole. L’album presenta episodi alterni, scontando ancora qualche pezzo scialbo, ma mostrando una maggior cura negli arrangiamenti, soprattutto nell’utilizzo più ricco delle tastiere. Manca ancora qualcosa, però. A questo punto della loro discografia cade quello che possiamo chiamare il loro disco di transizione che separerà il vecchio corso dal nuovo: “The colour of spring” (1986). La strumentazione scelta per la realizzazione dell’intero disco è di chiara matrice vintage: quasi a voler sottolineare ancor più marcatamente la distanza dalle loro precedenti prove. Il folto gruppo di musicisti che affianca la band è di primissimo livello ed assicura un ottimo apporto qualitativo. Tra di loro spiccano Steve Winwood all’organo (Traffic) e David Rhodes alla chitarra (Peter Gabriel) che donano ai brani maggiore apertura e calore, oltre a far pensare che i Talk Talk vogliano guardare in qualche maniera all’art-rock del decennio precedente. Il ponte con il passato è assicurato comunque dalla scelta della forma canzone, ma vi comparivano anche brani suonati all’insegna di una straordinaria trance. I Talk Talk dimostrano di essersi liberati completamente dei cliché di una stagione musicale ormai al termine, e di poter avviare una strada autonoma. Un disco, insomma, non ancora perfetto, che segna una svolta non ancora definitiva, ma già netta. Avvenne allora che la casa discografica, dopo il crescente consenso di vendite, concesse fiducia e diede carta bianca ai quattro ragazzi londinesi: “fate quel che volete, per il prossimo disco prendete quel che vi pare. Paghiamo noi” si sentirono dire dalla EMI, e mal gliene colse. I Talk-Talk si chiusero in un casolare in campagna e iniziarono a comporre e a suonare liberi da ogni pressione e condizionamento di produzione. Pare che suonassero in una stanza illuminata solo da lumi di candela per raggiungere il massimo dell’ispirazione e concentrazione. Quello che consegnarono fu un lavoro tenue e sofisticato che lasciò sbigottiti discografici e grande pubblico, segnandone inevitabilmente il crollo delle vendite. In tutti i brani sono innumerevoli i riferimenti all’avanguardia elettronica e al free-jazz. Complessivamente si alternano sul disco ben 17 musicisti, che suonavano strumenti classici, più il coro della cattedrale di Chelmsford. La trasformazione del gruppo non avrebbe potuto essere più radicale. “Spirit Of Eden” (EMI, 1988) contiene soltanto sei lunghi brani free-form che partono da movimenti minimi degli strumenti, tutto sussurrato e appena sfiorato, salvo essere di preludio per occasionali e intense esplosioni pronte a rientrare nella quiete dopo poco. Via gli strumenti elettronici, via le melodie appiccicose e avanti con elegantissime e suggestive linee appena abbozzate e scarne, appena sufficienti a sostenere l’armonia, pochi tocchi di chitarra, qualche accordo di pianoforte, la batteria solo quando serve ed un cantato lieve e non invadente. Il gruppo pubblicò nel 1991 un altro album, bellissimo anch’esso, con un’altra etichetta (Verve-Polydor, la EMI li scaricò dopo il flop commerciale di Spirit of Eden). “Laughing Stock” continua con lo stesso modello del precedente: sei brani, sei lunghe trance. Tutto l’album è un continuo alternarsi di canti malinconici, la voce di Hollis interviene con parsimonia, ma con toccante e sofferta profondità, ballate blues e sonorità free-jazz di cui è impossibile non rimanere affascinati, o almeno così sarebbe dovuto essere. Ma, si vede, che in quel periodo i media probabilmente erano indirizzati nella ricerca di nuove icone pop piuttosto che di un gruppo in grado di anticipare la musica “slo-core”. Quest’ultima fatica sancì il canto del cigno dei Talk Talk, il testamento di una carriera artistica che li ha visti emanciparsi dal mainstream delle band inglesi, alla ricerca di una dimensione, veramente originale. Mark Hollis pare abbia lasciato definitivamente il music business, per lui troppo pesante, dopo aver dato alle stampe nel 1998 un album solista omonimo, che prosegue sulla linea delle ultime cose del gruppo.

Vi propongo sei tracce dalla discografia dei Talk Talk:

“Happiness Is Easy”, dall’album “The colour of spring”, gemma che da sola meriterebbe l’ acquisto del disco. Mascherata inizialmente da docile pop-rock venato di blues, dopo un intro di percussioni e batteria si tramuta in maniera imprevista in una canzone sospesa e dalla forma libera, grazie all’uso sontuoso degli archi e a un inaspettato coro di bambini che duetta con Hollis in un crescendo celestiale a fine ritornello.

“I Don’t Believe In You”, sempre da “The colour of spring”, una malinconica e trasognata ballata, dove si manifesta più chiaramente l’ingresso di forme jazz libere. Il video è tratto da un esibizione live a Montreux.

“I Believe In You”, singolo estratto da “Spirit of Eden”, è una canzone più tradizionale. Una melodia sospesa, appoggiata ad un tappeto di tastiere che miracolosamente si dirada quando appare il “ritornello”, rappresentato solo dalle parole sussurrate “spirit” e “how long” con un coro femminile celestiale.

“Eden”, da”Spirit of Eden”, trasporta l’ascoltatore in uno stato di trance, con un “ritornello” che pare un’esplosione col silenziatore, tanto è ovattato e onirico. Tutto poi implode naturalmente, scomparendo con la stessa grazia con la quale si era presentato.

“Wealth”, traccia che conclude “Spirit of Eden”, il vero capolavoro assoluto dei Talk Talk. Titolo semplice che è insieme una richiesta di aiuto ed una sussurrata canzone d’amore. Organo, piano, qualche chitarra ed una voce sommessa raccontano la bellezza e la malinconia del valore della libertà nel sentimento d’amore. L’organo ed un basso accompagnano il finale, in una nuova dimensione quasi sacra, mentre la chitarra acustica solo ogni tanto si fa sentire con qualche nota o accordo che sembrano non voler disturbare il lungo abbandono.

“Ascension day” da “Laughing Stock”, in questa traccia la voce di Hollis si trascina su accordi dilatati di chitarra, con la sezione ritmica a scandire un tempo jazz psichedelico. L’ultimo minuto è dedicato a un marasma sonoro con la chitarra di Hollis a sferzare, fuori tempo, un lavoro batteristico di potenza devastante tra rullate e piatti sparati in faccia; e poi, di colpo, il silenzio, a lasciarci fluttuare sospesi nel vuoto con in testa ancora l’eco di quel muro di suono.

Questa, in sostanza, la storia di un gruppo che, partendo dal synth-pop dei primi anni ’80 è riuscito, sacrificando fama e gloria, a seguire il cammino del successo, ma a ritroso. Da band di “buona” popolarità a gruppo seminale per tutta una generazione di musicisti e riferimento per il filone ambient/post rock/slo-core esploso negli anni ’90. Non fate anche voi l’errore della comunità musicale in quel 1991, e date una possibilità ai redenti Talk Talk di farvi vedere che musica si ascolta lassù, dove la musica pop di massa è solo un lontano ricordo.

 

pagina wikipedia

 

HAPPINESS IS EASY – 1986

Audio

 

I DON’T BELIEVE IN YOU – 1986 – live

 

I BELIEVE IN YOU – 1988

 

EDEN – 1988

Audio

 

WEALTH – 1988

Audio

 

ASCENSION DAY – 1991

 

 

APPUNTAMENTO A DOMENICA PROSSIMA…

Talk Talk – I camaleonti del rockultima modifica: 2010-10-24T13:05:00+02:00da
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