LO SPELEOLOGO
di NICOLAS ICARDI
Gli Small Faces sono il gruppo mod per eccellenza, con rabbia e grinta in scena e beat “progressivo” in studio. Sono stati l’emblema del modernismo, il gruppo più cool di tutta l’Inghilterra dei sixties. Furono i mod dominatori della parte orientale di Londra (rivali degli Who, che controllavano l’altra zona) fino al 1967-68. Furono uno dei gruppi più originali di quel movimento, ma anche come vedremo tra i più sfortunati, grazie a un asse chitarra-basso che avrebbe insegnato a molti gruppi britannici e americani come speculare sulla tradizione del blues e del soul in chiave rock, in un certo senso il sound rozzo e trascinante degli Small Faces inventò l’impeto dell’hard-rock. Il gruppo si forma a Londra nel 1965, Steve Marriott (chitarra e voce), che proveniva già da altri gruppi locali con cui aveva inciso dei singoli, lo affiancano Ronnie Lane (basso e voce), Kenny Jones (batteria) e Jimmy Winston (organo). Erano giovani, bassi di statura e innamorati della musica nera: così presero per buono l’appellativo di una loro fan e andarono a chiamarsi Small Faces, dove “face” era il modo classico dei Mods di chiamarsi fra loro (non a caso i Who, avevano debuttato con “I’m The Face”). Dopo solo 6 settimane di prove pubblicano il primo singolo “Watcha gonna do about it” che sale fino al 14esimo posto della classifica inglese. Winston abbandona subito sostituito da Ian McLagan. Gli Small Faces diventano in breve tempo il gruppo favorito dai giovani inglesi, l’istrionismo di Steve Marriott sul palco era secondo soltanto a quello di Mick Jagger e la brutalità dei suoi riff e di quelli del basso di Ronnie Lane rivaleggiava con quella dei Kinks e degli Who. Infilano una straordinaria serie di pezzi in classifica, scrissero in due anni e mezzo 12 pezzi che finirono nella Top20 inglese. La buona vena di Marriott e Lane, lo stile r’n’b aggressivo, le impeccabili armonie vocali e qualche artificio elettronico fanno della band una delle maggiori attrazioni della scena britannica del ’66/’67, furono tra i primi gruppi a fare espliciti riferimenti all’utilizzo di droghe in pezzi come “Here Come The Nice” e “My Mind’s Eye”. Si sviluppa per loro però una carriera costretta a ripiegarsi su se stessa, con un talentuoso gruppo impossibilitato di uscire dalle sonorità deliziosamente r’n’b dei primi, già amati, ma clamorosamente non retribuiti, singoli. Vengono obbligati a estenuanti tour per la convinzione dei poteri alti che i ragazzi passeranno presto di moda: è la teoria di mungere la vacca finché c’è latte. In realtà gli Small Faces sarebbero stati capaci di creare ben altro che una manciata di brillanti canzoni beat-soul già originali ma ancora sostanzialmente superficiali. Nessuno pensava che dietro questi ragazzini vestiti italian-style ci fosse un genio incredibile, che per emergere avrebbe avuto bisogno solo di tempo, spazi consoni, considerazione e mezzi. Sul fronte degli album quindi, dopo un paio di dischi che sono semplici raccolte dei loro successi, fanno un primo tentativo pubblicando nel 1966 l’album “Small Faces”. La cosa riesce meglio quando si liberano dalla loro casa discografica la Decca, per l’allora più all’avanguardia e moderna Immediate Records. Steve Marriott e soci pensano finalmente di avere la loro grande occasione, nasce così uno dei pochi concept del tempo degno di essere accostato all’inarrivabile modello beatlesiano (“Sgt.Pepper”). Pubblicano allora quello che sarà il loro capolavoro “Ogden’s nut gone flake” (1968). Ascoltandolo veniamo storditi e ammaliati da brevi gemme sinfoniche che vengono rallentate, abbassate di volume fino all’inesistenza e poi fatte ripartire, chitarre dure e terribilmente potenti, basso a volume sovrastante, batteria piena di effetti e vorticosa, senza una stabilità ritmica. L’album ostenta un’insolita copertina rotonda e un repertorio in sintonia con i nuovi fuochi psichedelici che riassume tutta la creatività del gruppo e riscuote l’approvazione della critica e del pubblico (sarà numero uno in Inghilterra). L’ultimo album ufficiale purtroppo e il doppio “The autumn stone” (1969), che è una sorta di antologia con inediti, singoli e live. Nei primi mesi del 1969 abbandonati anche dalla nuova casa discografica, gli Small Faces si sciolgono, frustrati dal ruolo di gruppo pop che non li soddisfa più e dal quale non riescono più a uscire. Marriott finirà agli Humble Pie, i rimanenti tre (Lane, McLagan e Jones) formarono i Faces con Ron Wood e Rod Stewart e avranno un discreto successo agli inizi dei ’70. Nel 1976 in coincidenza con il fortunato rilancio di alcuni classici del repertorio Small Faces, Marriott, Jones e McLagan riformeranno il gruppo con Rick Wills e Jimmi McCullouch ed effettueranno alcuni concerti per poi incidere un paio di album, “Playmates” (1977) e “’78 in the shade” (1978), per poi sciogliersi definitivamente nel Maggio 1978. Pochi mesi dopo Jones entrerà negli Who per sostituire lo scomparso Keith Moon. Intanto nel 1977 Ronnie Lane contrae la sclerosi multipla durante la registrazione di Rough Mix, un album a cui collaborava anche Pete Townshend degli Who. Steve Mariott morì tragicamente nel 1991 in un incendio nella sua casa. Ronnie Lane, che da tempo viveva in Colorado e che aveva suonato per l’ultima volta in pubblico nel 1987 su una sedia a rotelle, è morto nel 1997 di sclerosi multipla.
Dalla loro discografia vi propongo 4 tracce:
“All Or Nothing” (1966), traccia che troverete nella raccolta “From the Beginning” (1967) e nella raccolta “The Autumn stone” (1969) ,all’epoca album interessanti, sono ora stati superati dalle recenti operazioni discografiche. La traccia è un accorato spiritual reso dalla voce di Marriott potente ed unico con una distorta figura di chitarra a tenergli testa.
“Tin Soldier”, dall’album “Small Faces” (1967), pezzo travolgente, è un incalzante e spavaldo blues-rock con basso e Hammond dotati di vita propria.
“Lazy Sunday”, dall’album “Ogden’s nut gone flake” (1968), scritta da Steve Marriott sulle liti che aveva con i suoi vicini. Ha dalla sua i vocalizzi ubriachi di Marriott e un raffinato arrangiamento jazz, andamento da music hall e rumori naturali.
“Afterglow (of your love)” dall’album “Ogden’s nut gone flake” è un bellissimo soul psichedelico, in cui blues, soul e atmosfere lisergiche si mescolano in un crescendo di meravigliosa armonia.
Sono durati poco, gli Small Faces, ma hanno lasciato tracce indelebili nella musica rock degli anni ’60, cambiando spesso pelle e influenzando molto la scena British dai ’70 in avanti. Ascoltate i Jam di Paul Weller, per convincervene, ma anche gli Oasis, i primi Blur, fino agli Arctic Monkeys del nostro tempo: sono tutti nipotini delle Facce e di quel loro suono nervi, spigoli e passione.
ALL OR NOTHING – 1966
TIN SOLDIER – 1967
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LAZY SUNDAY – 1968
AFTERGLOW(OF YOUR LOVE) – 1968
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A DOMENICA PROSSIMA…